sabato 27 settembre 2008

Arte

All'interno della rassegna Festivall aperta a Milano il 16 settembre sottolineo la rassegna Festival del Cinema Africano, d'Asia e d'America Latina, che promuove da anni la cultra cinematografica deitre continenti. Nelle giornate 28 e 30 settembre saranno analizzate le opere di due autori franco maghrebini attraverso le opere dagli anni 90 ad oggi.

MOUNIR FATMI è nato nel 1970 a Tangeri. Vive e lavora tra Parigi Tangeri.
Fatmi cosruisce degli spazi e dei giochi di linguaggio che liberano le parole di chi li guarda.I suoi videoinstallazioni,disegni,pitture o sculture ci rendono consapevoli delle nostre ambiguità, dei dubb,dei nostri desideri. Sottolineano l'attuale nel nostro mondo,ciò che avviene negli incidenti,rivelandone la struttura;segnan i nostri criteri e sintomi. Il suo sguardo sul mondo diventa ilnostro:l'iperdensità del flusso continuo i informazioni che ci attraversa tesseuna rete tra trasparenza e malinteso. I suoi lavori sono stati mostrai al Migros Museum für Gegenwarskunst di Zurigo, al Museum Kunst Palast i Düsseldorf, al Centre Georges Pompidou di Paris, a Stoccolma e al Mori Art Museum di Tokyo.Ha partecipato alla 5ème biennale de Gwangju in Corea del Sud e alla 2ème biennale di Séville. Nel 2006, ha ricevuto il Grand Prix Léopold Sédar Senghor, il più grande riconoscimento della 7ème biennale de Dakar. Nel 2007 il suo lavoro è stato selezionato per la 1ère triennale de Luanda, la 8ème biennale de Sharjah, oltre che per la 52ème biennale di Venezia.
Nel 2008, fa parte della programmazone Paradise Now ! Essential French Avant-garde Cinema 1890-2008 alla Tate Modern de Londres. Ha partecipato all'esposizione Flow, allo Studio Museum de Harlem, a New York et all'esposizioneTraces du Sacré al Centre Pompidou à Paris.

http://www.mounirfatmi.com/2installation/babelhouse.html



ZINED SEDIRA è nata a Parigi nel 1963. Vive e lavora a Londra.
E' una delle più interessanti artiste contemporanee. Nata in Francia da genitori algerini, ha ricevuto un’educazione culturalmente occidentale nonostante sia cresciuta in una
comunità musulmana. Tale formazione si è riversata nella produzione video, esplorando i paradossi del condividere più culture. Percorrendo i molteplici codici islamici di rappresentazione, e i modi in cui l’Occidente se ne appropria, l’artista mette a nudo i conflitti di identità, le problematiche legate alle condizione femminile e gli stereotipi che caratterizzano le rispettive tradizioni attraverso il video, la fotografia e l’installazione. In rassegna è presentata un’attenta selezione videografica dai primi anni novanta fino a Middle Sea (2008), mostrato per la prima volta in Italia, in cui il mare diventa metafora dell’ambivalenza tra appartenenza e distanza.Ha esposto in numerose mostre internazionali, tra cui la Biennale di Venezia (2001), la Tate Modern di Londra (2002), il Centre Pompidou di Parigi (2005). Nel 2008 ha partecipato a Global Feminism al Brooklyn Museum (New York). I suoi lavori fanno parte di importanti collezioni come: Tate Britain, Victoria and Albert Museum (Londra); Centre Pompidou, FNAC (Parigi);MUMOK (Vienna).
SINOSSI DEI VIDEO

MOUNIR FATMI
Les autres c’est les autres, 1999, 11’
“Chi sono gli altri?” Una domanda tanto semplice quanto esistenziale che ora più che mai ci
circonda e ci coinvolge. Una domanda presa a prestito dalle questioni filosofiche dello scrittore
algerino Mohammed Dib, a cui si ispira lo stesso artista. Con una semplice videocamera Mounir
Fatmi si lascia travolgere dalla folla parigina per porre ai passanti l’accesa questione contemporanea “chi sono gli altri?”. Alcuni si spostano, altri rispondono che non hanno tempo, altri ancora decidono di assecondare l’intervistatore, riflettendo insieme sull’altrui presenza. “Gli altri sono gli altri” risponde un ultimo passante che rivolge la video camera e la domanda allo stesso artista. Indubbiamente uno dei lavori videografici più emblematici del percorso artistico di Fatmi: l’altro è la migliore sollecitazione per chiedere e chiedersi come l’altrui identità possa coinvolgere, tollerare, stravolgere o distruggere il diverso e lo sconosciuto che non sempre è distante da noi.
Face, 99 noms de Dieu, 1999, 2’15’’
La religione musulmana vieta la rappresentazione iconografica dell’immagine di Dio. Un Dio che
può avere 99 identità racchiuse in un unico grande potere ma che resta privo di un qualche
riferimento visivo. Egli è menzionato nel Corano sotto 99 identità come il Superbo o il Creatore ma sempre e solo attraverso descrizioni linguistiche e mai visuali. In questo video, gli spettatori si trovano di fronte a una lunga lista che progressivamente svela i vari appellativi dati al Creatore. La possibilità di dare un’immagine a uno di questi “sostantivi” viene lasciata allo spettatore che si trova, suo malgrado, a ricostruire visivamente una possibile icona di Dio. Ancora una volta Mounir Fatmi lascia l’opera aperta al punto da sospenderne una parte fondamentale, la narrazione, a favore di una partecipazione attiva e collaborativa. Così, alla fine, ciascuno di noi finisce per immaginare Dio, a proprio modo, per mezzo di un'immagine personale e privata.
Manipulation, 2004, 6’50’’
Il video sceglie di parafrasare l’aspetto ludico del celebre cubo di Rubik per metterlo a confronto
con le immagini reali di un mondo arabo visto in varie sfaccettature. L’opera – critica e autocritica –restituisce la possibilità di manipolare la realtà come la finzione in un gioco delle parti in costante mutazione e manipolazione. Le due mani, intente a risolvere il gioco, diventano progressivamente nere, così come i due lati del cubo per anticipare il passaggio visivo a un’ulteriore dimensione più reale e tangibile. La forma del rompicapo rimanda all’immagine di uno dei santuari più antichi al mondo: la Kaaba (che in arabo significa appunto cubo). Mounir Fatmi sceglie il non colore per parafrasare le violenze, il sangue umano indubbiamente versato, ma anche il petrolio, la maggiore contesa economica tra Occidente e Oriente. Scene di pellegrini in cammino e in preghiera mentre la politica internazionale continua il proprio obiettivo di tutela della pace. Quale pace? Nessuna in realtà, visto che gli impegni dei potenti pare conducano a una vera distruzione, come il petrolio, perso dalle petroliere, annienta tutto ciò che incontra.
Rain Making, 2004, 6’
Il video vede susseguirsi immagini veloci, spesso sovrapposte e manipolate, di un minareto,
intrappolato nella sua potenza simbolica fra antenne paraboliche e tetti. Le immagini si succedono vorticosamente ma nel titolo è racchiuso il vero significato dell’opera: in molte culture e religioni la pioggia rappresenta la benedizione che Dio, nella sua misericordia suprema, concede o rifiuta agli uomini. Nel folklore di alcune culture, non solo africane, si racconta che la capacità di “invocare” la pioggia è stato concesso solo ad alcuni "Wali", e il loro prestigio è tale che le popolazioni di alcuni villaggi lasciano ancora, a pochi “eletti” la possibilità di divenire un “rain making”. Le nuvole si sovrappongono così alle stesse immagini, montate sempre più velocemente, a suggerire il richiamo della pioggia che, spesso, giunge così potente da uccidere centinaia di persone. Il video tenta una duplice lettura, in bilico fra l’immaginazione folkloristica e la cinica società contemporanea che non risparmia nessun luogo e nessuna religione.
History of the history, 2006, 38’
Nel 2006 Mounir Fatmi scopre che tutti i fascicoli riguardanti il “pericoloso” caso delle Pantere
Nere sono stati resi pubblici e accessibili. Dopo un’attenta lettura ed analisi della documentazione
completa, Fatmi decide di invitare a Parigi David Hilliard, ex membro fondatore e capo di stato
maggiore generale del Partito Pantere Nere, vicino al leader Huey P. Newton. Il video è composto da una ripresa fissa (tipica delle interviste televisive) intenta a non perdere mai di vista il proprio soggetto, sovrapposto a parte dei documenti recuperati. Il dialogo si concentra sul racconto di Hilliard a partire dalla fondazione del partito nel 1966 fino allo scioglimento a metà degli anni settanta. L’ancora agguerrito e appassionato Hilliard racconta di come la missione del gruppo sia stata ostacolata dall’FBI ma anche da tensioni interne per via delle posizioni rigide sulla difesa e sulla progressione della comunità nera. Molti sono morti, molti hanno rischiato la vita e altrettanti sono stati in carcere (David Hilliard stesso è stato più volte condannato.) Per più di trent’anni la storia delle Pantere Nere è stata ostacolata, oscurata e data in pasto ai mass media solo per la lotta armata portata avanti fino al momento dello scioglimento del gruppo. Oltre a questo c’è stato molto di più: le Pantere Nere sono state anche fonte alternativa di programmi per la "comunità", si pensi all'articolo 10 del loro manifesto "Vogliamo terra, pane, alloggio, istruzione, abbigliamento, la giustizia e la pace".

ZINEB SEDIRA
MiddleSea, 2008, 16’
Presentato per la prima volta in Italia, l’ultimo film di Zineb Sedira parla ancora del mare, simbolo di antiche e nuove migrazioni, di scambi e di divisioni tra Nord e Sud del mondo. Un uomo solitario viaggia su una nave tra Marsiglia e Algeri, ma protagonista è l’immensa distesa del mare, con il suo ritmo ipnotico, che nel film viene amplificato dagli effetti sonori, monotoni e intermittenti. Le immagini hanno un taglio cinematografico. L’artista alterna la messa a fuoco dei dettagli – la spuma del mare, i particolari del ponte, gli occhi dell’uomo - ad ampie vedute sull’orizzonte. L’uomo sembra viaggiare fuori dal tempo, in uno spazio senza confini.
And the road goes on…, 2005, 8’
La costa algerina è filmata da una macchina in movimento. Il paesaggio si staglia come un quadro: il rosso della terra, il verde dei campi, il blu del mare. La vita è colta nella sua quotidianità. Nel momento in cui delle persone passano lungo il ciglio della strada, l’immagine viene sdoppiata e rallentata, come se le figure umane si muovessero in un altro spazio e in un altro tempo. L’artista evoca le persone scomparse nei villaggi durante la guerra d’Algeria (1954-1962), che portò alla fine del dominio coloniale francese, o emigrate in Francia con il grande esodo del 1962, legando la loro memoria alla terra.
Retelling Histories, my mother told me…, 2003, 10’
Nel video l’artista e sua madre conversano in francese e arabo. La madre ricorda la sua vita e quella di altre donne durante la guerra algerina di indipendenza tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta, fino all’emigrazione in Francia. L’artista interpreta il duplice ruolo di figlia e d’intervistatrice. Informale e intima, l’opera fa parte di una serie di video nei quali l’artista recupera le memorie della sua famiglia, connettendo gli eventi personali alle vicende storiche e sociali, interrogandosi inoltre sulla questione della trasmissione dell’identità e della memoria da una generazione all’altra. Nei video di Zineb Sedira la lingua è un elemento di continuità, ma anche di divisione e di distanza. Poiché l’arabo dei genitori non è più la lingua madre dei figli e dei nipoti, il racconto orale è sì lo strumento principe per affidare i ricordi alle nuove generazioni, ma è al tempo stesso l’elemento rivelatore di una diaspora.
Don’t do to her what you did to me, 1998/2001, 9’
Il video presenta una sorta di rituale. Gocce d’inchiostro si disperdono nell’acqua assieme alle
fotografie di una donna, sul cui retro una mano ha precedentemente scritto la frase del titolo. Lo
spettatore vede le immagini deformate attraverso il vetro del bicchiere. La miscela viene mescolata e bevuta, mentre il volto della donna si liquefa, si frammenta e scompare. L’inchiostro che si scioglie, formando delicati arabeschi, prelude al destino della donna, alla sua condanna
all’invisibilità.
Saphir, 2006, 18’
Saphir significa zaffiro. La parola evoca la luce cristallina del mare e del cielo. In arabo significa
anche ambasciatore. Saphir è inoltre un hotel, simbolo del passato coloniale di Algeri. Un muto
dialogo si crea tra questo luogo, i due protagonisti e il mare, elemento di separazione e di unione.
L’uomo e la donna sembrano cercare gli stessi orizzonti, ma non si incontrano mai. L’uomo osserva le navi andare e venire dal porto. La donna vaga nelle stanze vuote. Alla luce del mare si
contrappone il buio degli interni. Il porto e l’albergo sono entrambi luoghi di passaggio, di sogni
transitori. Saphir esprime la dialettica tra andare e stare, tra appartenenza e distanza, tra desiderio di partire e impossibilità, tra la costrizione alla fuga e la nostalgia.

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